La scelta di diventare fotografo avvenne durante gli anni della contestazione, quando era ancora uno studente di architettura. Grandi nomi dietro questo grande artista, che ne segnano la vicenda professionale, a cominciare da Aldo Rossi il cui contributo al dibattito contemporaneo sull’architettura andava nella direzione di una messa in discussione della figura dell’architetto e verso la necessità «di confrontare i singoli edifici con il tessuto urbano, di dare profondità alla storia nel dialogo con il moderno» (pp. 8-9). Tra i fotografi che hanno influenzato la sua formazione spiccano nomi come Ugo Mulas -che in quegli anni «ebbe l’effetto di una deflagrazione», per il suo «modo completamente nuovo e dirompente di raccontare la realtà» (p. 14)- e Gianni Berengo Gardin, a tutt’oggi suo amico e punto di riferimento. Ma Basilico ammette anche di essere stato suggestionato da Walter Evans che considera il suo «vero grande maestro segreto» (p. 15). A fargli comprendere la magia del bianco e nero è stato invece Bill Brandt, ma ha anche subito la seduzione del linguaggio essenziale riscontrabile nella ricerca fotografica dei coniugi Becher. È con Milano ritratti di fabbriche che lo sguardo di Basilico comincia il viaggio nella contemplazione. Vede per la prima volta «un lembo di città senza il movimento perpetuo quotidiano, senza le auto in sosta, senza suoni e rumori»; vede per la prima volta insomma «l’architettura riproporsi nella sua essenza» (p. 24). Poi il salto definitivo in una poetica che sarà sua per sempre e che permetterà agli osservatori di riconoscere da qui in avanti le sue fotografie: “Questo è Gabriele Basilico!”. E Basilico sa che cosa intende fare con la fotografia. Non aspira a indirizzare le scelte politiche o a condizionare l’urbanistica, perché la fotografia di architettura semplicemente non ha questo potere, ma può però «creare una nuova sensibilità. Una nuova sensibilità per poter interpretare il mondo conformato, caotico e indecifrabile che ci sta dinnanzi» (p. 148). Basilico supera anche la visione bressoniana e la cifra della sua fotografia diviene la «lentezza dello sguardo», che lo fa approdare a una vera e propria «pratica della contemplazione» (p. 47). Tappa fondamentale per questo radicale cambiamento è stata la partecipazione al progetto francese DATAR:
«Dopo l’esperienza della DATAR al “momento decisivo”, al quale mi aveva abituato la lezione del reportage, avevo preferito, attraverso progressioni successive, la “lentezza dello sguardo”. Quasi a voler cogliere nell’immagine tutti i particolari, fino alla complessità delle cose che, a una minuziosa osservazione, il paesaggio poteva restituire» (p. 44).
Il ruolo del fotografo viene ridimensionato dal nuovo significato che la fotografia assume in Basilico. L’immagine che traccia questo nuovo modo di vedere e sentire è Le Tréport (1985), in cui sembra che il paesaggio si faccia a tal punto potente da divorare chi ha colto l’intima struttura del suo stare: «La grande dimensione porta l’identità a scomparire e lo spazio fa venir meno il senso di dominio di cui può diventare preda il fotografo. Non si domina più lo spazio ma si è dentro lo spazio infinito» (p. 69).
In Basilico persino la solitudine dell’edificio ripreso, il vuoto insomma, acquisisce un suo senso, che non sta nella volontà del fotografo di riprendere l’opera nella sua purezza architettonica.
«Nelle architetture sono nascosti occhi, nasi, orecchie, labbra, volti che aspettano la parola, e la parola sembra poter nascere solo se essi vivono l’evento rivelatore della luce, nella condizione limite che è l’assenza dell’uomo dal quadro dell’immagine. Ma basta la presenza di un uomo a dare all’architettura il valore di sfondo, a dare al vuoto il senso drammatico di un’assenza, mentre l’assenza dell’uomo toglie al vuoto la dimensione d’angoscia e fa del vuoto quello che realmente è. […] Fotografo il vuoto come protagonista di se stesso, con tutto il suo lirismo, con tutta la sua forza, con tutta la sua umanizzante capacità di comunicazione, perché il vuoto nell’architettura è parte integrante, persino strutturale del suo essere» (pp. 100-101).
Quando Basilico è chiamato nel 1991 dalla scrittrice Dominique Eddé per fotografare la capitale libanese distrutta dalla guerra e pronta alla rinascita, ha ormai una sua poetica, che a Beirut gli consente di poter documentare il volto vissuto della città: non le piaghe ma le ferite rimarginate, non le cicatrici ma le rughe, segni del tempo. Il soggetto non è la distruzione, ma il dialogo con una città silente, «caduta in un lungo periodo di attesa» (p. 86), che chiede rispetto e chiede di esser guardata con l’occhio attento di chi, comunque sia, riconosce le sue bellezze.
«Beirut vista dall’alto non era diversa da altre città mediterranee, come ad esempio Napoli o Palermo. L’area centrale della città era completamente abbandonata e le uniche presenze umane erano i posti di blocco di soldati siriani e libanesi e qualche famiglia di rifugiati […]. Apparentemente il senso di vuoto di Beirut si ritrova spesso nel mio lavoro sulle città, nonostante io coltivi l’illusione che le mie città non siano mai veramente vuote» (pp. 85-86).
Le immagini di Basilico trasbordano, costringono a un completamento mentale, condizionano la decodifica, impongono un punto di vista altro, questo perché alla rappresentazione geometrica rinascimentale il fotografo milanese preferisce quella barocca di Bellotto che trasgredisce la convenzione del margine. Le immagini sembrano così non finire, determinando uno scacco che restituisce alla foto la sua dignità di opera d’arte. Non più mimesi del reale, piuttosto rappresentazione dell’ideale, alla lettera: rappresentazione di ciò che proviene dalla forma perfetta, dal mondo delle idee. Sì, perché gli edifici di Basilico sono in qualche strano modo, forse grazie alla magia della sua inseparabile Linhof, sempre perfetti anche quando sono in rovina.
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Gabriele Basilico
Architettura, città, visioni. Riflessioni sulla fotografia
A cura di Andrea Lissoni
Bruno Mondadori
Milano 2007
Pag. 169
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Didascalie immagini in ordine di apparizione:
Le Tréport, 1985
Beirut, 1991